Fiorella Rega
Opera 1^ classificata
Cantami
Chiedimi di amarti,
che non lo so fare
se intorno a me sbiadiscono
i colori.
Guardami negli occhi
e giurami l’estate –
le stelle ad ogni notte,
l’infinito.
Prendimi le mani
e cantami l’Immenso.
E metti il tuo sigillo sul mio cuore.
Natascia Milani
Opera 2^ classificata
Attimi
Scegliere il cuore
e: annodare emozioni.
Sciogliere la notte
in un ricordo che divora.
Immensità
dentro lo sguardo
trafitto da sogni.
In un respiro
perdersi nell’anima
mentre una lacrima
muore nel sole,
sussurrando il silenzio
nella via delle rose.
Angelo Feggi
Opera 3^ classificata ex aequo
I Grandi Pensieri volano
I Grandi Pensieri volano
sciamano via dolcemente
rincorrono, pallidi,
i luoghi della memoria.
Poi si spengono
addensandosi l’un l’altro,
come illusioni a primavera;
si rincorrono,
le ferite di una vita.
In una stanza oscura
in qualche luogo dimenticato
qualcuno piange
la sua rabbia trattenuta.
E’ ora di andare.
Fruscio del vento,
stormir di fronde,
arde la passione,
la cenere si sveglia.
Presto le primule
sbocceranno
ad annunciar primavera,
ma sarà troppo tardi.
Lei non è qui con me.
Lucia Lo Bianco
Opera 3^ classificata ex aequo
I Bambini e la guerra
Ricordi? Si parlava a bassa voce
noi bimbi senza sguardo sul domani,
voglia bruciante cresciuta sulle ossa
tra braci e vie corrose dai mortai.
Ed eran scoppi laceranti per orecchie
che avean udito le grida del terrore,
erano squarci spalancati verso il vuoto,
un buco nero d’universo indifferente.
Insieme varcavamo quel confine
che l’innocenza impediva di vedere;
all’improvviso un sibilo, una lama
ritagliava i colori alle pareti
e nuova forma, terribile bellezza,
sgorgava a sangue dal bianco del soffitto,
mentre un pennello incerto tra le dita
tracciava varchi e fosse negli abissi.
Come follia di torbido pittore,
tratti di un film riflesso sulle mura,
luce assassina, un fuoco sopra il cielo,
illuminava la notte come giorno.
E le parole annegavano il silenzio,
non c’era suono su carni martoriate.
Ma io rammento le fughe senza scarpe,
pelle tagliata da rocce incattivite;
né cancellare sapranno questi anni
l’odore acre di morte dentro casa.
Ricordi? Cantavano i fanciulli
ma il dolce miele nuotava senza meta.
Erano voci stonate e senza senso
prive di toni, perdute dentro il tempo.
Lucio Postacchini
Opera 3^ classificata ex aequo
Maggio lontano
Il sole di maggio ricorda
l’infanzia serena,
quel fresco leggero,
quell’aria lieve
sull’aie, tra i mucchi tagliati
di paglia e di fieno.
Nei giorni di festa,
nei pomeriggi e di sera,
eran giochi di bimbi
tra scale poggiate,
tra sedie con donne
a parlar di lor cose lontane.
Il tramonto giungeva
sì presto, e or giunge
il ricordo di luci fioche
da quei vetri sottili, finestre
del nostro passato
ch’è rimasto nel cuore.
Anna Santarelli
Opera 4^ classificata
Una radice
È uno scampolo di nulla
la vita che non hai vissuto
l’evento mai attraversato
è respiro trattenuto, volo
reciso sul filo del giorno.
È licenza negata, impronta
che alligna nella carne,
verità di giorni denudati
arresi al fiume del tempo.
Eppure una radice resta
perdura nell’impossibilità,
un lato dell’anima resiste
nell’ammasso quotidiano
agli infiniti distacchi
– voluti talora subiti –
In proliferazione di fatti
eventi luoghi, una radice
si fa fulcro di vita, nucleo.
Mariagina Bonciani
Opera 5^ classificata
Alla ricerca del tempo perduto
Cercava un tale un dì il perduto tempo
negli anfratti mnemonici dei sensi;
io perdo oggi il tempo per cercare
cose ancora presenti alla memoria,
ma di cui ho da molto ormai scordato
in quale luogo un giorno le ho riposte.
Copie di un giornalino giovanile,
dattiloscritto insieme ad un’amica
ai tempi delle medie, pieghevoli
di mostre visitate, che oggigiorno
sarebbero quasi storici reperti,
appunti e annotazioni, date e dati …
Oggi
ricordo queste cose, le ho in memoria,
ma ho scordato
il luogo dove un giorno le ho riposte!
27 gennaio 2021
Matteo Angelo Lauria
Opera 6^ classificata
Oltre l’orizzonte
La terra ripudia
ciò che non ha partorito.
Albergo allora il cielo
per meglio misurare dall’alto
quanto profonda
è la bellezza del mare,
la sola che somigli alla morte
per vastità.
Nel volo prodigioso
gareggio con i gabbiani,
musicando le solitudini volute
e le parole non dette
di chi,
per vocazione,
appartiene all’acqua.
E in quell’ora del giorno,
in cui nulla più
delinea la fine del mare
e l’inizio del cielo,
il mio librare è autentico e leggero
in uno spazio senza confini.
L’unico che,
per seduzione,
somigli alla vita.
Rodolfo Zanardi
Opera 7^ classificata
Precipitevolissimevolmente
Presto! Presto! Faremo tardi a scuola!
All’una in ufficio c’è un cliente!
Sbrigati, bisogna fare in fretta,
corri, che l’aereo non ci aspetta!
trotta, senza sostare un momento.
Con quale risultato: il fallimento!
Visto qual è stata la conclusione,
ne valeva veramente la pena?
Vivere ogni giorno in altalena.
E dovrei essere assai contento,
ridotto come le foglie al vento?
Seduto sull’argine del fiume,
guardare il sorgere del sole,
vedere nel ciel le rondini volare,
sentire il profumo delle viole,
e le piccole cose che puoi fare.
E allora? Vivere la vita con
tempi di ghepardo o di lumaca?
Correre affannarsi o indugiare?
Piano, senza fretta, lentamente.
Diceva Augusto: festina lente.
Lentissimevolissimevolmente!
Giulia Vannucchi
Opera 8^ classificata
Povere pietre
Terra polverosa si innalza in volute,
l’accarezza il vento che accompagna,
invisibile nume, il passo distratto.
Piedi pesanti strascicano i passi,
ocra e grigio il mesto sfondo
confonde la sopita speranza
nella monotona tavolozza.
Pittori distratti e imprudenti
già consumammo gli altri toni
e i blu, i verdi, i rossi e i gialli
dissolvemmo, a poco a poco,
nella tela delle nostre vite.
La spenta cromia ormai in noi,
obnubila coscienza e cuore
che cede stanco della pugna
e si fa imprigionare, vinto,
nell’inganno dei nostri tempi.
Ma lì, in catene costretto,
il battito feroce riprende e,
con la forza di un raggio di sole,
veste la grigia pioggia di luce,
di mille arcobaleni, di vita.
E così rinascemmo ancora,
povere pietre gettate da dei
alle spalle del loro cammino.
E il cammino riprende, cauto,
l’andare, accarezza il mondo.
Si innalzano adesso farfalle
di gioia e il vento canta ora
antiche parole di speranza.
(04/08/21)
Massimo Vito Avantaggiato
Opera 9^ classificata
Tratti: alcune suggestioni dopo una mostra di arte contemporanea.
Dedicato ad Emilio Scanavino (1922-1986), Maestro dell’Informale Italiano. Versi di 8 sillabe.
Scorgo tratti galleggianti
sulla materia infine
ove regna il colore
che dallo steso diserto
al ciliestrino passa.
Moto interno, contatti,
chiaroscuri e massa,
poi vivido singulto
che pulsa, vibra e cessa.
Nel turbato esotismo
odo forze inerziali,
poi un’anima smossa,
una nuova vibrazione,
che mi attanaglia, fosca.
Mi affranco dall’inganno…….
Abbraccio il silenzio
dopo averlo sfiorato,
quasi atomo oscuro
del mio io sussurrato.
Vittorio Di Ruocco
Opera 10^ classificata
A Kiev non c’è più posto per le tombe
Dedicata ai martiri di Kiev
La notte è colorata dal dolore
dal Male che trapassa le frontiere
strappando i fiori della libertà.
In questa landa aperta alla speranza
la terra è ancora pregna di tormento
di anime appassite all’improvviso
ai colpi devastanti del nemico
venuto a falcidiare la bellezza
a erigere gli altari della Morte.
Risuona ancora l’eco dei cannoni
per le campagne gravide di grano
e il coro dei kalashnikov feroci
che mischiano il veleno al sangue vivo.
Sono aquile discese a depredare
a trascinare al fondo dell’inferno
i semi di pacifiche illusioni.
E le parole si fanno d’acciaio
mentre le vite pregne di vigore
si spengono al tuonare dei mortai
dei carri dalla pelle di metallo.
Ora il nemico è a un passo dalle case
ferino e truce più di un assassino
calato sopra un popolo spaurito
sospeso tra le nuvole e l’abisso
abbarbicato alla sua dignità.
Perché si è annichilita la memoria?
Dov’è il perdono nato dal diluvio
di sangue sparso a fiumi per le strade,
dai cumuli di cenere e di ossa
dispersi tra le svastiche impietose?
Qui a Kiev non c’è più posto per le tombe
solo per Dio s’innalzano gli altari
perché venga un miracolo di pace
a riportare il germe della vita
nei campi arati dalla primavera.
Giuseppe Raineri
Opera 1^ classificata Sezione Narrativa
Ritratto ‘e femmena a’ fenesta
La finestra è serrata, chiusa, nessuno in giro. Curiuso!
Come ogni mattina, mi ero alzato presto per preparare ad arte ‘na tazzulella ‘e cafè e darmi una prima poderosa strigliata, seguita dai gesti di rito che accompagnano il risveglio e subito dopo via, per chiudere in bellezza da Ciro ‘o zuccariello con l’irrinunciabile sfogliatella, rigorosamente quella riccia come vuole la tradizione.
Infine, di corsa ‘ncoppa o’ motorino verso il travaglio quotidiano sfidando traffico e i clacson, che in questa città non suonano come altrove a mo’ di rimprovero, di sollecito a togliersi di mezzo, ma sono soprattutto messaggi per richiamare l’attenzione su una presenza: ci stongo pur’io, statte accort!
Prima di ogni altra cosa era d’obbligo una capatina veloce sotto la finestra di donna Filumena.
Per arrivarci occorreva attraversare l’androne di un palazzo in via Foria, e dopo essere passato indenne dal controllo del guardiano, salire una mezza rampa di scale, l’ascensore c’era, ma per pura bellezza, e attraversare un corridoio con il soffitto a volta per ritrovarsi in un giardino interno: nu muorz’ e’ Paravis’ e di silenzio, lontano dal vociare di strada e dal traffico, un tappeto d’erba sempre ben curata con amaca, piante, fiori, sedie e tavolini dove poter sorseggiare un caffè se la giornata era buona e stare senza pensieri almeno per un po’. I muri bianchissimi aumentavano la luminosità di quel teatro a cielo aperto, dove gli attori sembravano muoversi al rallentatore e sfumare in una nebbiolina irreale, come in un sogno dove il tempo diventa pura astrazione, un mero accessorio.
Su questa oasi di pace si affacciava lei, taciturna, lenta e precisa nei pochi movimenti che si concedeva con molta parsimonia. Sembrava un ritratto a mezzo busto su un fondale scuro.
Donna Filumena con il suo fare discreto, le sue rivelazioni, aveva inconsapevolmente stimolato il nascere di nuove professioni, nate certamente non per arricchire le tasche, ma l’anema.
Il guardiano, che in origine era uno dei tanti proprietari di un appartamento nel palazzo, pensionato ma facente funzione, controllava l’ingresso. Poi d’un tratto si era votato mente e corpo alla nuova occupazione, con il consenso degli altri condomini che tolleravano pazientemente il cambio di ruolo, sperando in qualche piccolo favoritismo nelle code di attesa.
Il suo compito consisteva nel disciplinare il flusso quasi ininterrotto di persone in visita e far osservare un minimo di riservatezza nei colloqui privati, trattenendo a debita distanza i questuanti.
Col tempo, la grande affluenza di visitatori aveva imposto naturalmente che il portone sulla strada rimanesse aperto da mattina presto a tarda sera.
Sul pianerottolo qualche sedia in plastica spartana, frutto della sopraffina arte di arrangiarsi del popolo napoletano, consentiva una sosta più confortevole agli astanti.
Nell’attesa era severamente vietato fumare.
Serbo ancora con tenerezza il ricordo di una donna riccamente impellicciata, dal portamento severo e aristocratico, coperta d’oro comme ‘na Maronna, che si misurò con questa proibizione condivisa, ma non detta: ci provò mettendosi in un angolo tra la muta disapprovazione dei presenti.
Sigaretta in una mano e accendino nell’altra.
Si guardò attorno, poi rassegnata ripose tutto in buon ordine nella borsa e bofonchiò «Nun è cosa».
In quell’ordinatissimo caos vigeva un’altra regola non espressa, ma accettata da tutti, per cui fino ad una certa ora della mattina non veniva rispettato l’ordine di arrivo: la precedenza veniva concessa con equità a chi tenev’ pressa e doveva correre al lavoro.
Gli altri, pensionati e disoccupati o mal occupati, arrivavano comunque presto per scambiare qualche chiacchiera nell’attesa.
In cerca di notizie, mi affacciai all’ingresso del B&B, al bancone i due giovani conduttori parlottavano a bassa voce, il giardino delle meraviglie era di loro pertinenza.
«Dove sono finiti tutti quanti?»
«Come, nun ‘o sapit’?. Nisciuno vi ha ditt’ niente?»
«E che è stato?»
«Donna Filumena se ne è iuta!»
«Iuta? E addo’ se ne è iuta?»
«Se n’è iuta da ’o Padreterno. L’hanno trovata alla finestra, senza vita. Se ne è accorto uno dei suoi visitatori abituali perché incurante ad ogni richiamo, non rispondeva. Sembrava assente.»
A questo punto è doverosa una spiegazione.
Donna Filumena era la reincarnazione della Sibilla cumana con la variante antica e moderna del silenzio.
Nessuno si ricordava di averla mai sentita parlare, né il suo tono di voce.
Rispondeva con semplici cenni della mano e con il movimento della testa.
Il suo era un “sì” o un “no” ad una e una sola domanda al giorno per persona, come una medicina da assumere una sola volta prima o dopo i pasti.
Lei non si sbagliava e pochi avevano provato ad ingannarla, del resto inutilmente.
Quanto più la domanda era ben formulata, tanto più la risposta lapidaria era precisa.
L’assenza di risposta non doveva essere fraintesa come mancanza di cortesia, ma semplicemente come non possibile, perché l’interrogazione non poteva ammettere esiti diversi dai due soli consentiti. In questo era una moderna, inconsapevole antesignana del linguaggio binario.
Era nato tutto per caso, quasi per scherzo, quando un abitante del palazzo le aveva rivolto la parola per togliersi la curiosità di sapere perché mai trascorresse tanto tempo immobile alla finestra.
Lei non rispose e non lo degnò nemmeno di uno sguardo sfuggente.
«Maronna mia quanto site scuntrusa».
Ritornò all’attacco nei giorni successivi andando nel giardino con il fermo proposito di affrontarla, per ottenere soddisfazione alla sua curiosità.
Lei non batté ciglio fino al giorno in cui il cocciuto provocatore le rivolse quasi per caso una domanda che lo riguardava personalmente, ma stavolta nel modo corretto.
Ricevette in risposta un gesto di assenso.
In ufficio si ricordò della donna alla finestra e si comportò come gli era stato laconicamente indicato.
Di fronte al dubbio, nell’incertezza di come comportarsi seguì il consiglio e si trovò bene.
Così fece anche nei giorni successivi con identico risultato.
La fama di questa donna profetica si diffuse velocemente dal palazzo al quartiere, alla città e così ebbe inizio la leggenda.
Donna Filumena o semplicemente Filù non si scomponeva, mai.
Il nome le era stato affibbiato da un cliente che così l’aveva battezzata di sua iniziativa e la cosa incontrò subito il favore di tutti.
Nessuno, stranamente, aveva mai chiesto a lei o ai parenti quale fosse il suo nome vero, per discrezione, per la pigrizia di tentare con combinazioni di nomi a cui avrebbe risposto nel solito modo fino a che qualcuno avesse azzeccato quello giusto.
Stava alla finestra che le faceva da cornice, immobile, consapevole della sua missione e quando concedeva i suoi oracoli rammentava molto la Gioconda nella posa delle braccia, nello sguardo enigmatico, meno sorridente ma ugualmente ironico; l’ironia di chi sa di sapere senza farne un inutile sfoggio. Nessuno l’aveva sentita proferire parola, dare un minimo di confidenza e su questo aspetto le ipotesi si disperdevano in mille rivoli: forse era muta dalla nascita e pareggiava quel debito che madre natura aveva contratto con lei vedendo chiaro nel futuro di tutti, forse lo era diventata per uno spavento o per scelta.
Nessuno aveva un ricordo certo di quando Filù fosse comparsa a quella finestra.
C’era chi giurava su quanto avesse di più caro che era lì già negli anni dei bombardamenti degli alleati e che la casa fosse stata risparmiata grazie a lei. Si era sempre rifiutata di muoversi dal suo posto ogni volta che risuonava l’allarme aereo, mentre tutti gli altri si precipitavano nei rifugi e per questo doveva esserci una buona ragione: lei sapeva che la casa non sarebbe stata colpita.
Il “professore” che abitava due piani sopra di lei aveva avuto il suo bel daffare per convincere quegli sprovveduti che era questione di pura probabilità, ma questo gli era valso un progressivo isolamento e una serie di battutine salaci ogni volta che andava e tornava dal suo appartamento, bollato dalla fama di eretico e miscredente.
Tra i frequentatori affezionati ed uno dei più acerrimi oppositori del “professore”, c’era addirittura un immigrato dal nord che col tempo aveva assunto aspetto e abitudini che lo rendevano indistinguibile da un partenopeo verace, se non quando apriva bocca per citare una sua massima, raccogliendo consensi più per solidarietà che per convinzione: «Chesta città nun ammett’ vie e’ miez’ o l’ami o l’odi».
Così diceva raccogliendo il consenso tacito e cortese dei presenti ormai rassegnati, tolleranti della sua pedanteria, ma anche gradevolmente meravigliati del suo indomito desiderio di sentirsi parte della loro città, città aperta e mai esclusiva.
Su questo variegato panorama di vite e culture tanto diverse, lei vegliava silenziosa; affacciata a quella finestra dormiva con la guancia appoggiata al palmo aperto della mano, lì consumava pasti frugali, lì stava con il caldo, con il freddo, con il sole e con la pioggia, anche nelle feste comandate.
Ora invece non c’era più, gettando tutti nello sconforto.
Sapevamo tutti dov’era sepolta, nonostante le esequie fossero state celebrate in forma privatissima. Malgrado la malcelata riluttanza dei familiari, sulla lapide era stata appiccicata una fotografia scattata di soppiatto, ma così reale che sembrava parlasse.
Era proprio lei e il mito di Filumena la veggente poté continuare indisturbato.
La gente non smise di andare a trovarla al cimitero di Poggioreale per porle i propri omaggi e sottoporle quesiti e così anch’io, quando potevo andarci nel rispetto degli orari di apertura.
Circolavano voci che fossero in corso trattative più o meno ufficiali con i custodi, che per motivi di forza maggiore avrebbero potuto averla vinta sulla rigidità del regolamento.
Alla domanda precisa rivolta alla nostra Sibilla, i presenti giuravano di aver visto l’immagine di Filù chinare il capo in avanti, segno di un deciso, inequivocabile e accorato “sì”.