Risultati della XVII Edizione del Premio Letterario Internazionale Jacques Prévert 2011
La Commissione esaminatrice della diciassettesima edizione del Premio letterario internazionale Jacquès Prèvert 2011, che è stata presieduta da Olivia Trioschi per la sezione poesia e da Massimo Barile per la sezione narrativa dopo l’analisi delle numerose raccolte pervenute ha stilato la classifica finale.
La premiazione avverrà a Melegnano (Milano) nel mese di gennaio 2012, i vincitori e segnalati verranno avvisati per tempo ed invitati a presenziare.
Sezione Poesia:
Hanno partecipato centoquattordici autori dei quali tre si sono classificati dal 1° al 3° posto, tredici sono risultati Segnalati dalla Giuria.
- Opera 1^ classificata: «Diario di esilio» di Claudio Inconis, Palau (OT). Vince: Targa Jacques Prévert – Pubblicazione di un libro di 48 pagine edito dalla casa editrice Montedit con assegnazione di 100 copie – Attestato.
Questa la motivazione della Giuria: «L’opera vincitrice del concorso è, come rivela sin dal titolo, un diario. Ma non il diario di “un” esilio, bensì il diario “di” Esilio. Dunque, una condizione esistenziale – temporanea, o anche definitiva, ma in questo contesto poco importa la sua durata temporale – diventa un nome, il nome di una persona. E se è vero che nomen omen, il nome fa l’uomo, l’Esilio – l’uomo – che ci parla in questi versi assume da subito i contorni sfumati – affascinanti e ambigui insieme – della distanza perenne, della nostalgia, dell’essere altrove, in una dimensione che oscilla tra l’onirico e il surreale, tra il mare, la terra e il vento. Pian piano, Esilio si svela. Dapprima con una piccola dichiarazione di poetica: “suono sul mare / cantando per i pesci / quartine di pensieri sparsi”. Il suono e il canto sono, lo sappiamo, le prime e più antiche – e pertanto cariche di suggestioni – attribuzioni del gesto poetico; per dir meglio, del fare poetico, dell’intessere emozioni intrecciando suoni, ritmi e parole con la pazienza, l’estro, l’abilità del tessitore. Suonare e cantare sono però anche attività giocose, fanciullesche, che letteralmente sprizzano gioia di vivere: e il nostro Esilio, dapprincipio, è così, un bambino giocoso che gioca con i pesci, guarda il mare, segue il respiro del vento, si inquieta quando le tenebre prendono il posto della luce, si domanda cosa sia l’orizzonte, dove sia, e perché il suo orizzonte sia prima in sé, e poi, forse, fuori di sé. Esilio sa anche essere simpatico, molto. Lo si vede da quel suo fare ammiccante, dal suo rivolgersi al lettore in tono prosastico e dimesso, dall’ostinazione con cui spezza i suoi versi, talvolta violentemente lirici, per riannodare il filo di una comunicazione con il lettore che corre sottotraccia ed è ironica e straniante. Come dire, insomma: io Esilio, vi ammalio e seduco, vi porto con me a visitare i luoghi del sogno e dell’oblio, ma non prendetemi troppo sul serio, canto anche solo per la gioia di farlo, anche perché è deliziosamente inutile, non solo per dare voce al mistero e al dolore della vita, che per tutti è esilio. Esilio – i suoi versi danno questa impressione – cresce: da bambino diventa adolescente, scopre il turbamento del senso e del sesso, diventa saggio, ma sempre con la sua aria un po’ svagata – altrimenti non sarebbe Esilio. Mette lì versi che suonano come piccoli aforismi: “quello che amiamo, che più desideriamo / ci consuma e ci riduce in fumo”; “vedrai che ogni verità / è conquistata a proprie spese”; “l’isolamento è uno specchio / in cui non vedo riflesso”. Esilio vive tante vite, mescola tante età, è come un precipitato di esperienze, un laboratorio di emozioni. Si offre al lettore senza filtri, come uno specchio in cui vedere il riflesso del caleidoscopio che è ogni uomo. E ci ricorda che “l’osservatore è più importante dell’oggetto osservato”. Infine ci saluta, ancora una volta sottotraccia, senza nostalgia e senza amarezza. “Sono Esilio – conclude – e questo è tutto”. Così, senza tanti giri di parole. Perché in fondo, questo è davvero tutto: l’esilio». Olivia Trioschi
- Opera 2^ classificata: «Frammenti di voci e angoli di cielo» di Claudia Nicchio, Vigonza (PD). Vince: Pubblicazione di un libro di 32 pagine edito dalla casa editrice Montedit con assegnazione di 100 copie – Attestato.
Questa la motivazione della Giuria: «Diciamolo subito: in questi frammenti di voci e in questi angoli di cielo non ci sono cori angelici, voli pindarici, veementi dichiarazioni di poetica. Non c’è, insomma, tutto l’armamentario retorico di chi pensa che la poesia debba essere rarefatta, ardua, depurata da scorie. Insomma, che la poesia debba essere la vita come la vorremmo: nutrita di buoni sentimenti, pensieri sofisticati, delicatezze d’animo. Al contrario. Quello che rende i versi di Claudia Nicchio interessanti – e meritevoli del secondo premio – è la loro densa materialità, il loro presentare la vita dal basso: esattamente dalla prospettiva in cui la viviamo, in mezzo a cucine da riordinare, orologi in ritardo, minestre riscaldate. Ci si chiederà: ma la poesia non è quell’arte divina capace di rendere prezioso ciò che è banale e quotidiano? A quale scopo comporre versi per infilarci dentro l’opacità del “giorno per giorno”, il grigiore della routine? Per almeno due buoni motivi. Intanto per ritrovare, finalmente, una poesia che entri dalla porta principale nelle abitudini di tutti i giorni, una poesia che sia buona da leggere – verrebbe da dire da bere e mangiare – senza dover ricorrere a manuali di retorica o di storia della letteratura. E poi perché di lirismi spinti, di sublimi aneliti di infinito, di idealità sventolate come trofei, francamente, non se ne può più. Dunque, ripartiamo. Umilmente, giocando sul filo dell’autoironia – non dell’autocompiacimento, per carità – senza pretese, con semplicità. Così nascono versi che sorprendono per il coraggio con cui viene recuperata la rima – rifiutata da troppa poesia moderna in nome della cosiddetta “libertà d’espressione”: “nel carrello di una spesa / ci sta la mia vita / sola e arresa […] Minestra questa sera / la solitudine grava / mia madre ricamava / con la cruna dell’ago”. Nascono anche versi che dicono, senza pudori, l’imperfezione dell’amore: “in quella sera fredda / in quelle mani affogate / dentro i tuoi pantaloni / nelle tue risate / a metà della nostra cena / che annega / in quell’orologio / fermo alle nove / di un novembre / piovoso di rubinetto”. O che si arrendono alla felicità senza perché di un momento: “Da un giorno all’altro / improvvisamente / il sole resta / perché oggi è un grande giorno”. O, infine, che da una traversina ferroviaria salgono fino all’irrevocabilità di una decisione: “Salgo e volo / con pioggia radiosa di fuori”. / Scelgo un binario a vita / e un’andata / senza ritorno acquisto”. Commiato che sa di “buon viaggio”, per questo viaggio che forse non ha più slanci, ma batte al ritmo della vita autentica, senza filtri e finzioni. E che il senso – il famoso “perché vivo”? – lo cerca senza clamore e forse con un po’ di paura, ma guardando proprio lì, nella vita stessa, piatti da lavare inclusi». Olivia Trioschi
- Opera 3^ classificata: «Ed io che sono?» di Franco Casadei, Cesena (FC). Vince: Pubblicazione di un libro di 32 pagine edito dalla casa editrice Montedit con assegnazione di 50 copie – Attestato.
Questa la motivazione della Giuria: «In questa raccolta c’è dolore, attesa del commiato, forse anche desiderio di commiato. Non c’è paura, però. Curiosità, semmai, e tanta voglia di continuare a farsi domande, anche sapendo che le risposte, con ogni probabilità, arriveranno esattamente quando sarà troppo tardi per poterle rivelare. Vediamo la prima questione: il dolore. Uno dei motivi per cui la poesia, in generale, è poco amata – specie dai giovani, specie quando se la trovano di fronte a scuola – è proprio questo. La domanda ricorrente è: ma i poeti non sanno fare altro che essere tristi e angosciati, e pensare alla sofferenza e alla morte? Su, un po’ di vita! È certo che in un tempo presente come il nostro, che ha rigettato l’idea stessa del dolore – fisico o mentale che sia – come condizione oscena e indegna, parlarne risulta un po’ difficile. Per dirla tutta, rischia di diventare la voce del profeta che chiama nel deserto. Eppure, noi sappiamo, anche se vorremmo non sapere. Sappiamo che ignorare la dimensione del dolore – totalmente e interamente umana – ci lascia soli e smarriti più di quanto già non siamo. Sappiamo che il dolore si può vivere solo nell’empatia, nella consapevolezza che si è uguali e fratelli proprio lì, dentro e di fronte al male (di vivere, di esserci, di esistere). Ma niente da fare: è argomento tabù, un po’ come la spazzatura nei salotti buoni. Pazienza, allora: sopportiamo che l’immaginario collettivo ci imbonisca con miraggi di eterne giovinezze, di prestanze fisiche pret-à-porter, di sorrisi smaglianti un tanto al chilo; e concediamoci il lusso di qualche solitudine privilegiata, lasciamo che versi come quelli di Casadei rammentino che dire “dolore” si può e si deve, e non occorre tapparsi le orecchie perché, anzi, l’immagine di poveri cimiteri di campagna, ombrosi e solitari, commuove e conforta: “si cammina in silenzio sulla ghiaia / e sui sentieri d’erba, i marmi sbrecciati […] Vi passerò il tempo del riposo / se inquieto / mi pare il posto giusto”. Accogliamo nel nostro immaginario privato, visto che in quello pubblico non si può, la vecchia povera di cui rimane solo l’ “eco della tosse”, la ragazza che entra in clausura (“spiga matura / e bionda a S. Giovanni […] rimasta solitaria in mezzo al campo”), la mater dolorosa (“gli avevo tessuto le mani / gli occhi, la carne rosa del fiore […] Non voglio essere consolata, a Te avvinta sarò di marmo, statua”); chiediamoci “è una condanna vivere?” e accettiamone le conseguenze (“pagherò il pedaggio / prima del commiato / che io meriti la terra che mi copre / vi cresca folta l’erba”), fino all’ultima, che riassumerà in uno solo gesto tutto il percorso: “per un solo passeggero / scenderà l’uomo in divisa / con garbo indicherà la mia carrozza / guarderò dai finestrini alla partenza / le strade bianche delle mie colline / e il mare. / Dirò grazie, appena un po’ commosso”. Grazie, ecco: lo diciamo anche noi». Olivia Trioschi
Sono risultati Segnalati dalla Giuria con Attestato di merito e proposte di pubblicare in volume l’opera con l’offerta di avere 50 copie gratuite in caso di pubblicazione dell’opera con l’editrice Montedit gli autori delle seguenti opere:
- «Silloge senza titolo» di Martina Abbondanza, Gatteo a Mare (FC).
Questa la motivazione della Giuria: «Una raccolta che si presenta compatta nei temi e nelle scelte stilistiche. Di particolare interesse è l’attenzione per i luoghi, soprattutto urbani, non descritti ma rappresentati attraverso scorci, angoli, istantanee attraverso le quali l’autrice fa rivivere al lettore le tinte, i profumi, la materia viva di cui è fatta l’anima di una città. Così, “Potenza propone le sue colline / il suo cielo vivo di condomini”; “Roma è scritta / nei sampietrini / passo dopo passo / per piazza di Spagna”; “Tende le mani Matera vecchia / dove i volti degli anziani scolpiti nel tufo / sono storie ammucchiate tra pareti”: immagini, come si vede, dove la città non è solo luogo ma atmosfera, respiro, forziere di storie e di volti, recupero del tempo perduto o promessa del tempo da vivere, e dunque filo rosso che congiunge il presente al passato. Un altro punto di interesse è dato dai ritratti di uomini e donne, talvolta persone care – un padre, una sorella – talaltra figure emblematiche colte in un gesto o in un’espressione, come “la matta di Cesenatico” che “presto presto esce / in bicicletta torna la notte / aspettata da nessuno / e il silenzio con lei alza / la voce maleducato / come le cassiere e i passanti”, o come la “ragazza” del treno, che dice “lavorare stanca”. Luoghi e persone, dunque, ci appaiono qui vivi e veri, riplasmati da dita delicate che sanno restituire loro lo spessore che spesso si perde “nel respiro dello iodio della routine”. Una bella prova per una giovane poetessa». Olivia Trioschi
- «La mia casa piena di specchi» di Concetta Aiello, Oglianico (TO).
Questa la motivazione della Giuria: «Com’è una casa piena di specchi? Come la vita – la mia vita, precisa l’autrice, ma a ben guardare ogni vita è un caleidoscopio di specchi – che si ripete rinnovandosi, e si rinnova nella continuità, e in cui ognuno di noi si muove in libertà, proprio come in una casa, disponendo “in cassetti foderati / di seta blu / in ordine perfetto” i giorni, o abbandonando “in angoli nascosti / ricordi reconditi”, che per quanto in disparte sono sempre lì, e “si riflettono in specchi opachi”. Così disegnata la cornice della raccolta, e trovato il legame che tiene uniti i tanti specchi – le sue poesie – in cui la vita intera si riflette, Ajello si apre a molte suggestioni, frammenti restituiti da un’immagine riflessa per un momento, o per sempre; e coglie così se stessa in un atto d’amore, il ricordo di un autobus affollato, labbra come ali di farfalla. Un intero vissuto filtrato attraverso una prospettiva esclusivamente individuale – in fondo l’unica che ci è data – dalla quale emerge con forza la consapevolezza di una solitudine irrevocabile e dolorosa, marchio a fuoco di una vita che va comunque vissuta: “ma… la vita va vissuta. / Trovo nel giorno / l’eco del cuore”». Olivia Trioschi
- «Giunti alle mani (2010)» di Giuseppe Armani, Piacenza.
Questa la motivazione della Giuria: «Quando due persone “giungono alle mani” si pensa: ecco, la lite, la rabbia che diventa furia, la furia che diventa violenza, la voglia di afferrare, colpire, torcere, strappare. Qualcuno va a terra, c’è del sangue, c’è l’offesa al corpo e alla mente. C’è soprattutto una comunicazione interrotta e forse impossibile. Da qui, dall’impossibilità della comunicazione, si sviluppa la poesia di Armani: una poesia distillata parola per parola, con un lavoro – che si indovina molto accurato – di scavo e rimozione per individuare la parola esatta, quasi scientificamente esatta, che delimiti precisamente il contorno di ciò che non si riesce a dire, nonostante i centomila e passa lemmi del dizionario. Ne risultano versi intagliati con perizia di scultore, o meglio incisi con precisione chirurgica su un tessuto di immagini che rimandano a pietra, ghiaccio, ossa, terra, sangue. E in mezzo a tutto ciò, le mani – è consentito supporre che l’autore abbia anche un po’ ironizzato su stesso? – “giunte”, o “in alto”, “vuote”, “piccole”, “in tasca”, “impegnate a rifare il mondo”. “Le mani – scrive l’autore – non cercano. / Trovano da subito” il canale per aprirsi al mondo, per lasciare “un segreto / scivolare in altre mani / come una lucertola”. Non è una poesia facile, questa di Armani, ma è una bella sfida, da affrontare a mani libere». Olivia Trioschi
- «Le rivelazioni del cuore» di Alberto Cerbone, Casoria (NA).
Questa la motivazione della Giuria: «Vi sono molti ritratti, molte piccole storie in questa raccolta: umanità incerte, sbilenche, perse in una modernità incomprensibile, un po’ vittime e un po’ carnefici. Noi, insomma. Ci sono le due ombre che non sanno più parlarsi, e a cui non resta che buio ed errore, laddove – si intuisce – c’era stato un “prima”, spessore residuo di un ricordo confuso; c’è l’orfano occhi blu, che maniacalmente corregge gli errori di wikipedia e non ammette né emozione né incertezze; c’è Carmela poliziotta a Napoli, incinta e senza compagnia; e poi c’è John, che tra tutti è forse il più affascinante e spaventoso, che alle spalle si è lasciato la città, e ora è un poeta scettico che guarda il mondo / da lontano, teme che a tenerlo in mano / o a cantarlo ancora, ridiventi polvere. Sono ritratti, si diceva, e sono anche rivelazioni, che spesso ci trascinano dove non vorremmo perché il cuore non ha estetica. Il cuore non ha neppure ipocrisie, si potrebbe aggiungere; ipocrisie che da questa raccolta sono bandite, mentre al loro posto si fa strada la verità, per quanto crudele, banale o provvisoria sia». Olivia Trioschi
- «Sogno surreale – a Francesca» di Nunzia D’Andrea, Cambiago (MI).
Questa la motivazione della Giuria: «In questa raccolta c’è una lirica di notevole suggestione. Siccome è breve, vale la pena di riportarla per intero: “E infine mi dissolvo / come vapore nell’aria. / Fluttuo. Tra orpelli / e discorsi. Corpo leggero. / Acqua nell’acqua. / Ritorno alla terra. / Divento un suo fiore”. Un sogno surreale, certo, come quello evocato dal titolo, ma quanta tensione della volontà, quanto desiderio vi si avverte. Desiderio di confondersi, mescolarsi, essere liquido tra i liquidi e seme tra i semi. Perdere la propria identità per acquistarne una più vasta e includente, senza confini tra sé e l’altro. La raccolta della D’Andrea rivela più volte questo slancio dell’anima verso una dimensione che accolga in sé anche il respiro dell’universo. Sotto questo slancio, si intuisce un dolore che rimane sottotraccia e che si concretizza qua e là in immagini di nettezza crudele, come il letto freddo o le grinfie sulle carni calde, ma è un dolore che ha trovato risposta nella consapevolezza che tutto è stato necessario / come acqua alla terra, nel sogno surreale che è la vita». Olivia Trioschi
- «Biancolatte» di Monica Fiorentino, Sorrento (NA).
Questa la motivazione della Giuria: «L’haiku, antica forma poetica arrivata in Occidente dal Giappone, sua patria natale, abbaglia per la sua semplicità. Tre versi, 17 sillabe che possono diventare 25 nella forma “occidentale”: un’istantanea di folgorante chiarezza, un cortocircuito del pensiero, limpidissimo nella sua espressione. “Verso casa / il primo ciliegio / – La primavera”: il primo haiku della raccolta di Monica Fiorentino è questo, e in sé racchiude la concretezza della situazione (la casa, l’albero) , e l’emozione del ritorno – un ritorno lungamente desiderato? O il solito tragitto, che all’improvviso si colora di nuovo? L’haiku apre un mondo in cui gli oggetti non evocano l’emozione: sono l’emozione, sono il moto interiore, anche violento; come questo: “- Mi dispiace / E una stella cade / dentro me”, o questo: “Sciabordio / di onde sugli scogli. / – Gli spettri”. Versi nitidi, che non possono che nascere da un lungo e paziente lavoro di pulizia interiore e raffinamento stilistico, ben rappresentato in tutta questa interessante raccolta». Olivia Trioschi
- «Silloge senza titolo» di Manuela Magi, Tolentino (MC).
Questa la motivazione della Giuria: «Una raccolta intessuta di un amore che non ha paura di chiamarsi tale, abbastanza forte da permettersi il lusso di chiamarsi imperfetto amore. Parlare d’amore senza essere banali è difficile, figuriamoci scriverne in versi; Manuela Magi ci riesce perché lo fa con immediatezza, con slancio autentico e sincero, senza incorrere nei tranelli della facile retorica. L’autrice usa una lingua semplice e ricercata insieme, che si arrende all’evidenza dell’emozione e del sentimento: “Siamo parola, vera / che nella triade del tempo / parla d’amore. Eternamente”; “D’amarti mi sorprendo / come se nulla al mondo fosse / – ancora più grande / nemmeno il sole mi riscalda, così forte”. L’amore di cui parla Manuela Magi ha i volti e i sogni di un uomo e un figlio, ma è anche un sentimento caldo, forte e cosmico, come una fiamma viva che non smette mai di alimentare la vita e la poesia». Olivia Trioschi
- «Profondo di paesi» di Danila Olivieri, Riva Trigoso (GE).
Questa la motivazione della Giuria: «La poesia in apertura, significativamente dedicata a Montale, ci porta su per un sentiero a strapiombo tra la montagna e il mare, nelle assolate Cinque terre, disegnate con tratti ampi, visioni d’insieme, sensi ridestati: lo sguardo spazia da “scogli lucenti di sale” a “stretti vicoli tra intrichi di scale / e torri solitarie”, da “orti ebbri d’aromi d’agrumi” a “bianchi silenzi di santuari”. Mare, terra aspra e severa, gente di porto e di barca, abituata alla fatica, sono i motivi dominanti della raccolta e ne ispirano il ritmo – incalzante come l’incessante movimento delle onde – e il linguaggio, ricco di un’aggettivazione che fiorisce spontanea come la macchia mediterranea, lasciando dietro di sé un’eco di serenità». Olivia Trioschi
- «In volo» di Andrea Pistorio, Messina.
Questa la motivazione della Giuria: «Sguardo lucido, disincanto, qua e là un filo di cinismo (“Intanto torniamo a bere / [addolcito coi chiodi di latta] / il tè), saggezza che non fa sconti a nessuno e tanto meno a se stessi (“Eppure io ti amavo / come il tramonto ama il cieco / che non vede il tempo che rimane / o così ero solito dire”). E qua e là, squarci di tenerezza pura, di complicità che non pretende di essere totalizzante ma rimane, con un po’ di ironia, al di qua dell’abbandono sentimentale (“La culla”), e preferisce la strada un poco più impervia ma assai fertile dell’accettazione dei limiti, propri e altrui. Non tutto si può capire, e i versi non rivelano mondi metafisici; ma possono accompagnare vite, e contenere i danni. La raccolta non è del tutto omogenea nei risultati, specie laddove si fa apertamente polemica, ma presenta diverse liriche decisamente interessanti». Olivia Trioschi
- «Ti apro la porta» di Maria Pia Ricci, Benevento.
Questa la motivazione della Giuria: «Aprire la porta è un gesto che noi tutti ripetiamo distrattamente decine di volte al giorno, così, senza pensarci, com’è normale che sia. Poi, quando vediamo l’azione che si trasforma in parola o meglio in invito, e non un invito generico, ma rivolto proprio a noi – a me, a te, a ognuno – ecco che quel gesto semplice – abbassare una maniglia, spingere la porta – si spoglia della sua routine per diventare simbolo, trasparente e seducente. Ti apro la porta implica disponibilità, desiderio, accoglienza. Anche un po’ di rischio, a pensarci: chi entrerà, infatti, da quella porta? Non importa. Queste liriche, perché è su di loro che si spalanca la porta, non temono di offrirsi al lettore, e anzi lo accolgono da subito con energia, ritmo fluviale, ricchezza di immagini, potenza di parole. Maria Pia Ricci scrive poesie che, pur nella molteplicità dei temi – inclusi quelli difficili: solitudine e dolore – trabocca la vitalità di germogli che “fioriranno, infine, con pervicacia / fioriranno tra i massi, nei campi spogliati” perché “hanno in sé l’ardore / di irrefrenabili primavere”». Olivia Trioschi
- «L’Ospite sconosciuto» di Domenica Sammaritano, Piacenza.
Questa la motivazione della Giuria: «Un dubbio è un ospite sconosciuto, così come lo sono un sentimento, un desiderio o un bisogno nuovo; ogni volta che la routine si sfalda – e ciò avviene ogni giorno, se si ha occhi per vedere e cuore per sentire – succede perché uno sconosciuto si è presentato alla nostra porta, e non ha chiesto permesso per entrare. Non resta che accoglierlo, in qualunque forma si presenti, perché difficilmente se ne andrà, e in ogni caso non alla svelta: è quello che fa Domenica Sammaritano nelle sue brevi, limpide poesie, dove consapevolezza e stupore convivono, si tengono per mano: c’è consapevolezza – amara – nel verso “se fossimo giovani, / stasera, / riusciremmo a mentire”; c’è stupore, invece, nell’accorgersi che “buongiorno / non è solo un saluto / è l’augurio / che il tuo giorno / che il mio / sia felice davvero”. In una bella poesia della raccolta la poetessa scrive: “c’è luce / stasera / nel cuore […] / c’è luce / nel tempo / stasera / se guardi / lo vedi / ti accorgi anche tu”. Non è un commiato, è un invito e a guardare con occhi nuovi, oltre questi momenti / di anni confusi, la pietà e l’amore, quando come ospiti sconosciuti arriveranno anche da noi». Olivia Trioschi
- «Silloge senza titolo» di Carla Tombacco, Trivignano (VE).
Questa la motivazione della Giuria: «La raccolta si apre con una immagine piccola e bella: un rametto di poesia che si fa largo in mezzo al filo spinato, offrendosi a chi abbia il tempo e la pazienza di cercarlo. L’immagine è trasparente: richiama l’idea di qualcosa di fragile e delicato, ma insieme tenace e coraggioso, che si genera e cresce spontaneamente, e tenacemente si aggrappa alla vita, qualunque essa sia. La promessa formulata da quel rametto viene poi mantenuta: le poesie di Carla Tombacco sono come passi felpati che si fanno strada piano, senza invadenza ma senza timori, e che in virtù di questa tenacia si aprono a molteplici motivi, tratti di volta in volta dall’autobiografia, dalla cronaca, dalla quotidianità; motivi, però, sempre ricondotti entro una sorta di vortice interiore che trasfigura il dato reale in simbolo. Si spiega così l’acceso lirismo di queste liriche, e si comprende meglio il lavoro che sostiene le scelte lessicali e la costruzione delle immagini: versi come “ogni voce ha denti / per fare a pezzi parole / e masticare immagini”; “ti tuffavi per sempre / dalla riva del tempo / verso spazi intrecciati / di burrasche e chimere” – solo per citare due tra i molti esempi possibili – rivelano la volontà di parlare attraverso segni complessi: l’unico modo, sembra dire l’autrice, per sentire e condividere davvero l’emozione che vive dietro e dentro ogni istante». Olivia Trioschi
- «Il cammino» di Antonio Zavoli, Rimini.
Questa la motivazione della Giuria: «Un uomo in cammino verso Santiago. Un viaggio, quindi. Cerco sereno nel mio cuore, è il primo verso. È così svelata, subito, la doppia natura di questo viaggio: il cammino verso Santiago, luogo dell’anima e della fede per definizione; e il cammino verso e in se stessi, alla ricerca di un punto fermo, di una verità pura, senza schermi e filtri. Sereno, nella sua doppia valenza di attributo e di sostantivo, dà profondità e spessore a questa ricerca: significa una disposizione d’animo, “essere sereni”, ma anche “cercare il sereno”, cioè cercare chiarezza, luce, squarciare le ombre. L’autore si mette in cammino con occhi vuote, con mani vuote, perché solo su una pagina bianca (l’arcobaleno bianco, non a caso, è un’immagine cara al poeta) può essere rappresentata una verità netta, pulita (il vuoto contiene il vero). Nel cammino vi sono molte tappe, e forse anche più di una meta; infine una conclusione che a ben guardare era implicita nell’inizio: il senso del racconto / è il racconto stesso. Il senso del viaggio è lì, nel viaggio stesso. Niente è più vero di questo: il cammino». Olivia Trioschi
Sezione Narrativa:
Hanno partecipato settanta autori dei quali uno è risultato vincitore, sedici sono risultati Segnalati dalla Giuria.
- Opera 1^ classificata: «Good Hope» di Massimo Maso, Dolo (VE). Vince: Targa Jacques Prévert – Pubblicazione dell’opera edita dalla casa editrice Montedit con assegnazione di 50 copie – Attestato.
Questa la motivazione della Giuria: «Il romanzo “Good Hope” di Massimo Maso rappresenta la storia alchemica di un viaggio, l’idea che perseguita un moderno Ulisse, il gesto che conduce all’abisso ma, al contempo, si fa salvazione dell’anima, ultimo tentativo per rispettare un debito del cuore contratto trent’anni prima con alcuni amici e compagni di liceo che prevedeva di condividere un progetto comune, una passione che avesse la forza di riunirli per la realizzazione di quel sogno: “Circumnavigare l’Africa doppiando il Capo di Buona Speranza ma seguendo la rotta che porta al Corno per arrivare a Tangeri… roba da Ulisse”. Il viaggio-sogno con il jeweling, chiamato Good Hope, diventa un distillato lirico che incanala la passione ed innalza il significato profondo dell’amore, come a sottolineare ciò che si trova inciso su un bracciale amuleto che Ulisse offrirà ad Agnese, sua compagna per quell’ultimo viaggio: “La mia vita contamina la tua. Il tuo tempo lavora per il mio”. La folle discesa nel baratro d’acqua, la penetrazione volontaria nel cuore della tempesta, in attesa del vento caldo “che Ulisse aspetta da una vita”, diventano sensazione di abbandono: “sentirsi un granello di polvere nell’immensità dell’Universo, on gli occhi che sono una preghiera al cielo ed il cuore è un tuffo senza fine nel vuoto”.
La ricerca dell’”istante perfetto”, irripetibile, “in cui la vita ci balena negli occhi come folgore in tutta la sua meravigliosa ed alchemica compiutezza”: il momento magico che ha i colori del dramma e la dimensione epica.
Massimo Maso offre un romanzo affascinante in cui il tempo non esiste, capace di sfuggire allo spirito e alla coscienza, in un lento annegare nell’eternità, quando non contano più il vero e il falso ma unicamente il nostro istinto. La sua “parola” è fiamma che avvampa, purificazione e slancio drammatico, esaltazione sconfinata che separa l’esistenza dal tempo, irresistibile pulsione che conduce all’avventura nell’infinito». Massimo Barile
Sono risultati Segnalati dalla Giuria con Attestato di merito e proposte di pubblicare in volume l’opera con l’offerta di avere 50 copie gratuite in caso di pubblicazione dell’opera con l’editrice Montedit gli autori delle seguenti opere:
- «Mi ci vuole un drink» di Gerardo Alliata, Vibo Valentia.
Questa la motivazione della Giuria: «Nel romanzo di Gerardo Alliata, tra un drink e l’altro, si snoda la vita che offre sempre spunti ironici e illuminazioni esistenziali. La narrazione si alimenta di un continuo dialogo interiore che rappresenta la semina continua di rivelazioni e di considerazioni che nascono dal quotidiano vivere, tra complessità sconvolgente e ricerca d’un senso rivelatore». Massimo Barile
- «Punti di vista» di Sabrina Bordone, Genova.
Questa la motivazione della Giuria: «“Punti di vista” di Sabrina Bordone comprende la raccolta di racconti eterogenei che riportano la situazione umana nel dramma contingente del quotidiano, il corale dramma esistenziale che cerca un varco trasfigurativo. Nel romanzo di Sabrina Bordone prendono vita, come ad alimentare la complessa visione del percorso umano, i momenti-frammenti dell’esistere: l’amore e la sofferenza per l’amore non corrisposto; la vita con la sua cortina di simboli e il “male di vivere”; un uomo che tenta il suicidio ed il recupero di ricordi, emblema della partecipazione umana». Massimo Barile
- «Come germogliano i fiori» di Federico Cabianca, Cornedo Vicentino (VI).
Questa la motivazione della Giuria: «Le vicende del piccolo paese Marabilia e di Casa Contàda, nel romanzo di Federico Cabianca, diventano, simbolicamente, le storie di uomini e donne con i loro fardelli, tra resoconto di un disagio esistenziale, narrazione d’una vita negata che ritrova nella poesia un atto liberatorio capace di sedare il “sangue ribollente nelle vene”. “Come germogliano i fiori” di Federico Cabianca è opera pervasa da profonda sensibilità. Massimo Barile
- «Pensilina Vonnegut» di Sara Casotti, Milano.
Questa la motivazione della Giuria: «Nel romanzo di Sara Casotti v’è tutta l’attenzione possibile nel rendere, nel miglior modo, le intenzioni narrative. L’omaggio a Kurt Vonnegut, scrittore statunitense, autore di “Mattatoio n.5”, riconduce alla frammentazione in segmenti e ad alternanze cronologiche in un romanzo che vive l’equilibrio tra il sofisticato e il simbolico, tra le innumerevoli sorprese della vita e l’affermazione di una delle protagoniste del romanzo: ”I libri sono di chi ne ha bisogno”». Massimo Barile
- «Milagro (La leggenda di Santo Domingo de La Calzada)» di Stefano Colnaghi, Fara Gera D’Adda (BG).
Questa la motivazione della Giuria: «Il romanzo di Stefano Colnaghi, riconduce, con questa nuova opera, alla consolidata abilità narrativa di un Autore che riesce sempre a rendere “viva” la sua scrittura: limpida, precisa e, al contempo, penetrante. Il “cammino per Santiago”, che intraprende il protagonista del romanzo, diventa simbolico percorso umano, ricerca incessante dell’eterno viandante, itinerario ancestrale che deve nascere dal profondo del cuore perché “il cammino autentico è dentro il cuore”. Stefano Colnaghi rappresenta l’avventura cosmica e alimenta l’ispirazione come fosse fosse intima sostanza dell’esistenza». Massimo Barile
- «Il singhiozzo di Cesare» di Carlo Correnti, Roma.
Questa la motivazione della Giuria: «Il romanzo di Carlo Correnti racconta la storia delle esperienze esistenziali di un uomo, ormai pensionato, dopo aver lavorato per quasi una vita al Ministero delle Finanze. Si assiste ad un susseguirsi continuo di avvenimenti che accompagnano il ritmo serrato della narrazione. L’opera è pervasa da emozionanti recuperi memoriali che diventano la sostanza stessa dell’incredibile dipanarsi della vita». Massimo Barile
- «Tutte le cose sono uno» di Lella De Marchi, Pesaro (PU).
Questa la motivazione della Giuria: «Ricordando Eraclito con il suo enunciato “Tutte le cose sono uno”, allo stesso modo, le molteplici manifestazioni della vita possono assorbire tutte le nostre domande: la vita è “simbolo” ed ogni cosa ha un significato preciso. Questo fluire delle cose non è caotico e Lella De Marchi delinea il segno magico della sua rappresentazione. Tutto è ammantato da atmosfere rarefatte in un viaggio dell’Essere per raggiungere il mistero della Fonte». Massimo Barile
- «Dieci anni tra due vite» di Alessandro Fedele, Lecce.
Questa la motivazione della Giuria: «Alessandro Fedele riesce a coinvolgere con un romanzo struggente. Gli eventi imprevedibili della vita e il fatal destino illuminano la scena. La figura di un uomo, trasparente e fedele, che ritrova la missione della sua vita attraverso una lunga lotta interiore. L’amore infinito che prova per una donna: l’unica donna che avrebbe mai potuto amare veramente. Ecco la forza magica che sconfigge la separazione e conduce alla fusione». Massimo Barile
- «Falene» di Vanes Ferlini, Imola (BO).
Questa la motivazione della Giuria: «Vanes Ferlini racconta la storia di un uomo e la sua esperienza nella comunità Isola 21. “Falene” è un romanzo intriso di forte umanità e potente raffigurazione della vita come esperienza sofferta ma capace di regalare sorprese. Vanes Ferlini racconta l’Uomo, con le sue fragilità e contraddizioni, con estremo realismo, senza maschere, senza inutili giustificazioni e senza false illusioni, riuscendo a cogliere in pieno il bersaglio, fino nel profondo del cuore». Massimo Barile
- «Il canonico di San Severino» di Maria Chiara Firinu, Iglesias (CI).
Questa la motivazione della Giuria: «“Il canonico di San Severino” di Maria Chiara Firinu è un amorevole recupero memoriale che alimenta il ricordo fino a renderlo palpabile nelle sue molteplici sfaccettature. L’Autrice accompagna nella rievocazione, con discrezione, muovendosi tra reale ed immaginario, con la sua scrittura avvolgente sempre capace di rendere dominante la forza interiore e, allo stesso modo, anche la magia del tempo». Massimo Barile
- «Contadini» di Enzo Fortini, Fano (PU).
Questa la motivazione della Giuria: «L’opera di Franco Fortini è un romanzo, dal sapore dolce-amaro, sulla vita contadina e sull’avventura umana. La scrittura è sempre emozionante e la storia ammantata da sentimenti profondi. La vita di un uomo, che cerca di lottare contro la sua condizione precaria, tra coraggio e paura, per offrire una “nuova vita”, diventa paradigma morale». Massimo Barile
- «Sette opere di misericordia» di Antonio Luciani, Civitavecchia (RM).
Questa la motivazione della Giuria: «Antonio Luciani scende nel profondo dell’universo emozionale mediante continue riflessioni e sotterranee resistenze, alimentando la funzione di ricerca archetipica. Il tempo scorre veloce e si deve vivere ad ogni costo: i ricordi scorrono come bagliori esistenziali nell’incessante scandaglio interiore». Massimo Barile
- «Satura Lanx» di Mauro Montacchiesi, Roma.
Questa la motivazione della Giuria: «Mauro Montacchiesi offre un saggio storico-mitico-classico di notevole spessore e di elevato livello culturale. Si possono evidenziare le puntigliose e complesse ricerche documentali ed i molteplici riferimenti alla cultura classica. Il saggio mette in evidenza l’indiscutibile capacità di narrazione, la padronanza nella trattazione, assai perigliosa, oltre alla dovizia del ricercatore sempre accompagnata alla passione per la scrittura e notevole conoscenza delle tematiche affrontate». Massimo Barile
- «Dopo il temporale» di Andrea Polini, Livorno.
Questa la motivazione della Giuria: «Andrea Polini propone un romanzo intenso e travolgente. In un continuo susseguirsi di eventi, tra sentimenti, errori, fragilità e, dulcis in fundo, un rapimento, si scatena la fertilità narrativa dell’Autore. Una complessa storia di amore e di morte, che segue un ritmo serrato, con una progressiva penetrazione nell’arbitrio formalizzato del sistema sociale». Massimo Barile
- «Una stagione da Rimbaud» di Giulia Reale, Villaconvento Novoli (LE).
Questa la motivazione della Giuria: «Giulia Reale, con “Una stagione da Rimbaud”, offre la sua dimensione stilistica, tra segni premonitori, prestigiosi riferimenti, magica presenza e salvezza risolutrice. L’amore per la poesia di Arthur Rimbaud, fino ad identificarsi con il poeta, giocando sulla linea di confine, tra visione onirica e reale rigenerazione, guidando la danza sciamanica fino al grande amore». Massimo Barile
- «Oltre il vento del male» di Roberto Rubino, Pescara.
Questa la motivazione della Giuria: «“Oltre il vento del male” di Roberto Rubino rappresenta un diabolico-simbolico viaggio su una barca, metafora della vita, che si inoltra nelle oscurità della coscienza e mette in piena luce una giostra di personaggi che rendono la narrazione tremendamente avvincente». Massimo Barile
Agli Autori delle opere finaliste di entrambe le sezioni, considerate meritevoli di pubblicazione da parte della Giuria esaminatrice, offerta di 30 copie gratuite in caso di pubblicazione dell’opera con la Casa Editrice Montedit.
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